Valentino Sciotti è un uomo virtuoso. Ha capito che la vita bisogna guardarla negli occhi, come certe corse in bicicletta. Ne è prova questa partecipazione alla Cape Epic, evento epico per antonomasia arrivato al 20° anniversario. Anche se poi, per Valentino, il fine è ben più nobile e dolce: riguarda Domenico Nicola, suo figlio. «Noi abbiamo già corso assieme più volte la maratona di New York ed altri eventi sportivi, con il solo fine di rendere più forte il rapporto genitore figlio ed abbattere le barriere generazionali. Entrambi amiamo il Sudafrica e le sue zone enologiche e nel 2018 lui mi ha convinto a fare questa pazzia». Titolare della Vini Fantini, una passione infinita per la bici (e lo sport in generale), Valentino e Domenico Nicola hanno affrontato il prologo della corsa in Sudafrica tra i masters (c’è chi lo ha fatto con gli AC/DC in sottofondo: Impey, very rock people). «Il percorso in salita era da sogno, l’ultimo tratto, sei sette chilometri di discesa, terribile: single track, rocce ovunque, curve a gomito. Devo ancora decidere se continuare. Sarò caduto dodici volte. La bici non la controlli, e cadi. Per il resto: pedalare tra i vigneti è fantastico per me che vivo questo mondo».
Perché la Cape Epic?
«Dopo lo slittamento del 2018, per problemi di salute e pandemia, il progetto è stato rinviato fino a che gli organizzatori mi hanno detto che se non partecipavo quest’anno, perdevo l’invito che mi avevano fatto a suo tempo ed anche gli importi pagati ed allora, nonostante sia senza alcun allenamento specifico abbiamo deciso di andare all’avventura, con l’unico obiettivo di restare in gara fino alla fine. Eccoci qui».
Avete mai fatto altre corse insieme prima?
«Abbiamo sempre pedalato assieme, senza mai partecipare a gare. Anche la scorsa settimana abbiamo partecipato alla Strade Bianche assieme, dopo che in una settimana io ho cambiato tre fusi orari ed ho fatto due voli notturni, oltre a giornate in piedi in fiera».
Che significato ha per voi questa corsa fuori dalla gara?
«Io sono poco presente da sempre, a causa del mio lavoro e fare sport con i miei figli mi ha aiutato tantissimo a colmare le lacune quantitative, mi aiuta a dialogare come padre-amico».
La fatica unisce?
«Assolutamente sì, soprattutto se sai che stai iniziando un’avventura dove il finire un paio di tappe è già un sogno realizzato. Credo che per lui la sfida sia portarmi all’arrivo e nulla di più».

Come vi siete organizzati le giornate?
«Mai come in questo caso non abbiamo pensato a nulla, visto che non abbiamo potuto neanche allenarci assieme. Solo pochi giorni fa ci siamo letti tutto il programma e le istruzioni di partecipazione. Credo che alla fine di una tappa ci sarà solo da cercare di riposare il più possibile perché il giorno seguente ci sarà un’altra impresa da inseguire. Poi ho preso contatto con tanti amici ex professionisti con i quali socializzare un po’ e lasciarci trasmettere un po’ della loro esperienza, così come ho fatto con Petacchi che, di fronte alle mie titubanze, ha cercato di convincermi ad andare a prescindere dalla carenze di allenamento ed abitudine al mezzo».
Qual è la cosa che temete di più?
«Distanza e pericolosità dei percorsi, oltre a possibili incontri con fauna del territorio che potrebbe non gradire la nostra inclusione».
Cosa può sorprendervi?
«Innanzitutto riuscire nell’impresa di concludere la gara e poi, vedere territori incontaminati ma di rara bellezza. Nel caso in cui il tempo massimo dovesse permettercelo, vorremmo fare delle foto per rendere eterno il ricordo di momenti vissuti assieme».
Dunque l’obiettivo è finirla.
«Sì, il sogno è finire la gara. Sarebbe una vittoria grandissima per noi. Vediamo…».

Si creano rapporti alla Cape Epic?
«Conosco tre o quattro coppie ma il rapporto più stretto sarà con Chiarini e con Impey, visto che hanno chiuso con squadre sponsorizzate da noi».
Che bici pedalate?
«Mio figlio ha una Scott comprata dal mio amico Rabottini alcuni anni fa, io ho una Wilier comprata solo la settimana scorsa e provata una sola volta. Sono comunque orgoglioso di aver potuto prendere una bici italiana, anche perché ritengo che dovremmo tutti preferire le bici italiane alle straniere, sia per qualità che per sano nazionalismo».