Vent’anni di professionismo, trentuno grandi Giri, quarantasette vittorie tra cui quattro tappe al Tour de France. Descrivere Luis Leon Sanchez in poche parole non è semplice, uno dei corridori più longevi del gruppo e dei più amati dagli appassionati di ciclismo.
Il ritiro dalle corse non è stato semplice, ma era la scelta giusta da fare. Lo spagnolo però lontano dalle biciclette non ci sa proprio stare e per questo motivo, già dallo scorso anno, quando l’idea di appendere la bici al chiodo stava prendendo piede, aveva messo gli occhi sul mondo della Mountain Bike.
Nel 2022 ha partecipato infatti alla Skoda Titan Desert Almería, una gara a tappe di quattro giorni, e alla NEOM Titan Desert Arabia Saudita, vincendo anche la tappa regina. Uno spostamento sulla Mountain Bike che non è passato inosservato…
Perché proprio la Mtb?
«Volevo fare qualcosa di diverso nella mia vita. Quando pedali in gruppo per venticinque anni, hai voglia di cambiare un po’, uscire dalla monotonia. Sapevo che su strada non potevo più togliermi soddisfazioni, vista l’età, e così ho pensato di provare la Mountain Bike, senza però quello stress e quelle pressioni che avevo prima».
Che mondo hai trovato?
«Un ambiente bellissimo. Sicuramente non c’è quell’esasperazione che c’è nel ciclismo su strada: il pubblico è interessato solo a fare festa, le squadre sono lì per divertirsi e chi pedala lo fa davvero perché si vuole divertire. La vicinanza con i tifosi che si ha con la Mtb, a mio avviso, è superiore».
Stai pensando di partecipare ad altre corse?
«Assolutamente sì, ma sempre con lo spirito delle due Titan. Non voglio fare corse per professionisti, perché per me questo non è più un lavoro, ma un modo per passare il tempo allenandomi e facendo quello che mi è sempre piaciuto di più fare, pedalare».
Quindi non ti vedremo alla Cape Epic?
«Per il momento no. Ho visto che molti miei ex colleghi hanno partecipato, facendo anche molta fatica, come Vincenzo Nibali o Purito Rodriguez. Io non ho questa intenzione, è un livello troppo alto e richiede troppi sacrifici. Se avessi voluto continuare a farli, sarei rimasto pro’ su strada».
Con Van der Poel, Pidcock e Van Aert la multidisciplina ha mostrato tutti i suoi vantaggi, tu che ne pensi?
«Che è la verità. E io a questi tre nomi aggiungo anche quelli di Wiggins, Viviani, Thomas, Ganna, ovvero quelli che hanno iniziato su pista e hanno poi dominato anche su strada. Che sia ciclocross, pista o Mountain bike, ci sono solamente vantaggi nel praticare più discipline. Allarga gli orizzonti, migliora la tecnica, avvicina il pubblico ed è un modello per i più giovani».
Quando tu hai iniziato non era così, vero?
«Assolutamente no, era un mondo completamente diverso. Quando sono passato professionista, i giovani dovevano crescere piano piano, guardando i corridori più esperti, lavorando per loro e “imparando il mestiere”. C’era fin troppa tranquillità e si iniziava a vincere non prima dei 25 anni».
Adesso a 20 vincono il Tour de France…
«E non è un caso isolato, tutti i giovani vanno fortissimo, guardate il neopro’ Del Toro cosa ha fatto al Tour Down Under. Vi faccio un esempio: nel 2003 chi faceva 6 Watt per chilo poteva fare classifica in un grande Giro, ora con quei numeri puoi semplicemente tenere le ruote del gruppo. Senza 6,7 W/kg non si arriva nei dieci, l’asticella si è alzata tantissimo».
Cosa comporta questa tendenza?
«Porterà ad avere carriere molto più corte. Ma rigiro la domanda: è davvero un male correre meno anni ma più intensi? Secondo me, no. Qual è il problema a ritirarsi compiuti i 30 anni se hai già vinto svariati Tour de France, Giri d’Italia, Vuelta e classiche monumento? Piuttosto il problema è un altro, le conseguenze mentali e psicologiche».
Cioè?
«Mi voglio mettere nei panni di Pogacar, Vingegaard, Evenepoel e questi altri giovani fenomeni, che sono sottoposti ogni giorno a pressioni continue, miliardi di attenzioni da parte di tutti, ritiri in altura, corse a ripetizione da gennaio a ottobre. Psicologicamente e mentalmente è molto impegnativo».
Tu sei felice della tua scelta?
«Molto. Credo di aver fatto una bella carriera, sono riuscito a correre tanti anni e farmi molti amici. A un certo punto ho capito che così però non potevo andare avanti per tutta la vita, bisognava mettere un punto. E penso di averlo messo al momento giusto».
Qual è stato il momento più bello della tua carriera?
«Senza dubbio la prima vittoria al Tour de France nel 2008. Sai, da bambino andavo sempre a vedere il Tour de France sui Pirenei e in televisione non mi perdevo mai una tappa. Miguel Indurain era il mio idolo e un giorno mi sarebbe piaciuto essere come lui. Già partecipare alla Grande Boucle era un sogno, pensate vincere una (poi quattro ndr.) tappa».
E quello più complicato?
«Non c’è un momento preciso. Piuttosto direi quando sono caduto, per fortuna poche volte e quasi tutte a fine carriera. Negli ultimi anni la velocità del gruppo è aumentata a dismisura e così aumentano anche i rischi. Uno dei motivi per cui ho smesso è anche questo, non volevo più rischiare».
Come hai vissuto il primo inverno lontano dai ritiri e dalla preparazione?
«È stato strano, lo ammetto. In questo periodo dell’anno solitamente sono in Australia per il Tour Down Under, invece ora è tutto più tranquillo. Sono a casa, con la mia famiglia, i miei bimbi. Posso stare con loro, accompagnare mio figlio agli allenamenti di calcio. È stato un cambiamento grande, ma che avevo bisogno di fare».
Non ti manca dunque l’ambiente dei pro’?
«Per il momento no, forse perché è ancora tutto fresco. Non mi piaceva andare in ritiro perché io vivo a Murcia e il tempo qui è meraviglioso, anche per allenarsi. E la bici poi non l’ho lasciata: oltre alla Mountain Bike continuo ad allenarmi su strada con gli amici. Qui ho un bel gruppo con cui riesco ad uscire cinque o sei volte a settimana, anche se ad andature più tranquille».