Fontana: «Piangevo dentro al casco. Ora so che ho la pelle dura»

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C’erano il sole, le dune e il niente, per chilometri. E Marco Aurelio Fontana piangeva e piangeva, «piangi nel casco, mentre vai: alla Dakar piangono tutti». Qui non si parla più di mtb o di motori, di gare o competizioni, né medaglie e piazzamenti. Abbiamo voluto farci raccontare un po’ del suo viaggio, quello che l’olimpionico bronzo a Londra 2012 ha fatto all’Africa Eco Race. Un viaggio interiore prima ancora che sui terreni dolorosi bellissimi e cruenti dell’Africa. «Io ho sempre detto: corro per divertirmi e vinco per emozionarmi. Ma lì è l’opposto». Chissà se è tornato diverso: non lo sa bene neanche lui. Di sicuro Fontana è tornato pieno di emozione. Voleva partecipare alla ex Dakar in moto – lo ha fatto grazie a Honda e Genuine Oil -, era il suo sogno. E ce l’ha fatta. Chiudendo al 6° posto assoluto e 3° della categoria 450cc. Un portento. «Io sono andato per correre – racconta -, non per partecipare. Volevo arrivare tra i primi quindici. Quando mi sono messo ad andare forte per davvero ho fatto una cosa importante. Sono stato bravo».

Ha realizzato il suo sogno?
«Sì. Poi, ok, c’è quella che oggi è la Dakar. Ma questa in Africa è una cosa a parte. Nei sogni era più facile. Però mi sento realizzato, sentivo la chiamata della Dakar: questo era quello che volevo fare io. Ho fatto delle tappe dove la storia della Parigi-Dakar è stata scritta».

Ci porti lì.
«Mauritania: dune per 100 km. Cioè, ma ve lo immaginate Milano-Piacenza solo dune, dune, dune, a 130km/h? La Mauritania non è un posto facile. Entri e c’è il cartello: “Attenzione mine”. Non come la Dakar degli anni 80-90, qualcuno ti tira anche i sassi. Non è facile».

Cosa ha pensato? 
«A niente, ho solo pensato: vai avanti. Vai, affronta cento chilometri di dune. È un’avventura. Non è facile, davvero. A volte ti senti anche più solo di quello che sei, ma non so se è una sensazione mia. Un mio amico ha rotto la moto, è stato sei ore con la testa sotto le ruote, nel deserto. Poi arriva il camion-scopa, ti prende su, e hai tre o quattro ore di strada da fare. Noi siamo abituati a fare una vita facile».

Dunque che cos’è questo viaggio?
«Ha tutto il fascino e la magia e le difficoltà dell’Africa. Questa è la Dakar di una volta, il vento che tira, il sole gigante, le dogane, i dossi alti così».

Ha trovato il flusso, la simbiosi tra lei e la moto?
«L’ho trovato. Non è che ho gli incubi, ma ho il flash in testa di me con lo sterzo aperto e la moto che sbacchetta a mille. Sognavo di entrare in Speciale con il sole che sorge, e l’ho fatto. Però fare la gara è diverso. Anche se un risultato così non me lo aspettavo».

Ha avuto paura?
«No. Sei cosciente del rischio. Però una volta sono caduto che andavo a 140 orari. C’era una nota che indicava un castello sulla destra. Io cercavo il castello per capire se andavo bene. Come ho girato la testa sono decollato a pieno. Non sentivo nulla. Mi sono detto: mi sono rotto una gamba in due o cosa? Poi mi sono alzato, l’airbag mi ha protetto. Sono ripartito. Ho fatto 400 km a quasi 120 di media».

Cosa si è portato via?
«La consapevolezza che ho la pellaccia dura. Quando vai fuori comfort per così tanti giorni non è facile. Lo sapevo già che l’essere umano è in grado di fare cose incredibili. No, non mi sono portato via la sabbia o cose del genere. Solo il trofeo e due calamite per il frigorifero». 

Se chiude gli occhi che emozione sente?
«Il pianto nel casco mentre vai. Qui a Dakar piangono tutti. La vittoria è qualcosa in più, ma il sopravvivere è l’emozione che ti viene addosso. È una cosa forte».

La sua famiglia riusciva a sentirla?
«Ogni tanto, la sera. Non l’ho sentita quando stavo male. Perché è dura. Poi magari è il mio primo rally, quindi non lo so. Ci siamo sentiti in video chiamata quando sono arrivato a Dakar, sul Lago Rosa».

La rifarà?
«No, quella in Africa no. Se ho il progetto giusto vado a fare la Dakar. Qui ci sono tanti punti di domanda: e la benzina andrà bene?, e la nota giusta, e la pista giusta, e la moto va, e alla dogana mi fermano?, e non ho il libretto. Cose così. Però, ragazzi, che roba».

Trovate in racconti di Marco Aurelio Fontana qui.