MTB PLAYERS #8 / Samparisi: «Soffro e mi diverto. Marathon? Merita di più dall’UCI»

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Con Nicolas Samparisi il discorso è sempre in espansione. Si parte delle cose semplici, dalla bici, dalle tabelle di allenamento, e si arriva alla sofferenza, alla vita. «Da dieci mesi è nata mia figlia Aurora. La bici è bellissima, ma diventare genitore non ha paragoni con nulla. E Camilla, la mia compagna, sta facendo cose straordinarie. Non è facile, io spesso sono via. Se sono arrivato dove sono è solo grazie a lei». Entrare dentro il mondo di Sampa, e della KTM Alchemist powered by Brenta Brakes, è come farsi un giro nella volontà. Nicolas non è solo uno degli italiani più forti del panorama marathon per talento e abnegazione, dietro ci sono lo studio e l’attenzione. «Mi preparo da solo. Mi piace lavorare a livello teorico, butto giù le tabelle ma cerco anche di capire il corpo».

Le capita mai di non avere voglia?
«Ogni tanto sei titubante, e se lo sei come atleta lo sei anche come preparatore di te stesso. Entri in una forma di auto convincimento, non è facile. Sperimento lavori di nuova generazione come tenere la catena in tiro e le ripetute, un metodo che è saltato fuori l’anno scorso. Io non sono un precursore. Faccio una simulazione della gara, ma senza esagerare. Devi avvicinarti il più possibile alla gara effettiva».

È molto duro con se stesso?
«Non sono fiscale sulla tabelle di allenamento, se un giorno è previsto un lavoro ma non ce la faccio, allora faccio scarico. La cosa più importante è riuscire ad allenarsi tanto: quello fa la differenza. Però non bisogna mai oltrepassare la soglia perché altrimenti entri in un punto di non ritorno».

Le è successo?
«L’anno scorso sono arrivato tirato da un serie di cose, ero in over training. Avevo perso all’Italiano 40 watt rispetto alle solite gare che facevo. Allora ho detto: “Nico, aspetta un momento, fermati”. Un mese e mezzo dopo, due, c’erano le altre prove di coppa e sono tornato davanti. Dunque: allenarsi tanto, ma trovare l’equilibrio giusto».

Che stagione è per lei?
«L’obiettivo è migliorare, non nascondo che mi piacerebbe vincere una prova di coppa del mondo. Nove Mesto, per esempio. L’anno scorso ci sono andato vicino. Vedremo. Ci sono solo tre appuntamenti. Per la coppa del mondo avrò un occhio di riguardo in più, ma voglio stare sempre davanti nelle gare più importanti dell’anno».

L’UCI snobba la Marathon?
«Sono un po’ dispiaciuto. Vedere che già l’anno scorso erano quattro, speravo si andasse in un’altra direzione. Tre sono veramente poche. Soprattutto una in America, e non sono tanti i team che riescono a permettersi una trasferta del genere. Anche se non è una disciplina olimpica merita di più da parte dell’UCI. Dispiace. Ma bisogna sapersi accontentare. Aggiungiamo il campionato europeo e il mondiale, ci saranno tutti gli specialisti». 

Ma lei è più riflessivo o più impulsivo?
«Sulla preparazione rifletto molto, ma in gara sono più impulsivo. Avendo corso anche tanto su strada in alcuni frangenti della gara è determinante essere impulsivo. Allo sprint il ripensamento non è buono. Se pensi, in volata perdi. Con la preparazione cerco di essere teorico e matematico. Oggi la differenza la fa il motore, ma anche l’allenamento».

Il fisico ok. E la testa?
«Da tre anni ho un mental coach, Gabriele Colombo. Mi aiuta tanto, non solo per gli sforzi e per la fatica, ma anche per la vita di tutti i giorni. Noi atleti siamo instabili. Camilla mi ha spinto a lavorare con Gabriele».

Perché ne ha sentito l’esigenza?
«Tante volte mi capitava di alternare risultati di altissimo livello, come il 4° posto alla Roc d’Azur alla prima partecipazione, a decimi o undicesimi posti in una gara nazionale. No, non può essere che la settimana prima fai quel risultato lì e quella dopo, con la stessa condizione, non vai così forte. Da quando mi faccio seguire i miei risultati sono lo specchio della preparazione, sono più costanti e riesco in tutte le gare a dare tutto quello che ho. Prima non riuscivo a dare tutto».

Si è scoperto diverso?
«Molto più forte mentalmente che fisicamente. Ho buoni numeri, ma non sono un fenomeno. Però so soffrire molto di più di altri. Anche la gara che ho fatto in Spagna, lì fisicamente non ero pronto. Ma prima di mollare ce ne vuole. Mi stacco e rientro, mi stacco e rientro». 

Cos’è per lei la sofferenza?
«È necessaria. Ma c’è una sofferenza buona e una cattiva. Quella buona è quando soffri ma il corpo ti viene dietro. Quella cattiva è una tortura elevata, le gambe non girano». 

Un altro che sa cos’è la sofferenza è suo fratello. 
«Io mi ispiro a lui, è uno di quelli che ha più grinta in tutto il movimento. È forte di testa. Adesso vive in Val Camonica, ma ci sentiamo tutti i giorni. Ci consultiamo, ragioniamo. È bellissimo perché è mio fratello, ma è anche un collega di alto livello. Lo stimo tantissimo. Nostro padre faceva i rally con le macchine, mamma è fisioterapista. Quando abbiamo messo su la squadra l’abbiamo affidata a loro. La cosa importante per noi è stare uniti come una famiglia, siamo una famiglia».

A 31 anni che cosa ha capito della mtb?
«Che la differenza la fa il saper gestire la corsa in base a quello che si ha, inutile fare la sparata. Se vuoi vincere una corsa però devi stare davanti sin da subito. È importante conoscersi nel marathon». 

Se la gode ancora?
«Me la godo tantissimo, in generale la mtb, mi godo i posti, tutto. Uno dei miei posti preferiti è Redasco, in Val Grosina, un posto fantastico. Lì abbiamo una casa. È isolata, per andare in bici è dura, ma i paesaggi sono incredibili».

Le manca mai la strada?
«Mi piace tanto il mondo del fuoristrada, non mi manca nulla della strada. Io sono amichevole, in gruppo sono amico di tutti. In gara ce le si dà, eh. In strada è diverso, c’è molta invidia, si parla poco. È diverso». 

Ha un sogno?
«Prendere una medaglia al Mondiale, sarebbe incredibile. Ma se parliamo di un obiettivo dico: vincere il campionato italiano».