MONDIALI 2023 / Storia di Tom Pidcock, nato per la mountain bike (parte 2)

Tom Pidcock impenna sul traguardo di Albstadt (foto: Ineos Grenadiers/Michal Cerveny). Foto d'archivio
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Il campione olimpico di mountain bike, Tom Pidcock detto Tigger, vive ad Andorra con due pastori tedeschi e con Bethany Louise Zajak, la sua ragazza, che fa la interior designer e dà lezioni private di pianoforte. Tom non beve, neanche il tè e il caffè. Porta il suo Yorkshire addosso: al collo un ciondolo con la rosa bianca, il simbolo della sua contea, e ha gli orecchini neri di Whitby Jet, il minerale nero delle scogliere dello Yorkshire che indossò per prima la regina Vittoria. 

Quando vinse il mondiale di ciclocross, in Arkansas, planò sul traguardo steso sulla bici, faceva Superman. Peter Sagan, l’uomo che ha portato il ciclismo in un’altra dimensione, più affine allo spettacolo, quel giorno disse di essersi rivisto in lui. Ma Tigger confessò che era tutto studiato. «Quando ero juniores, passavo il tempo a immaginare come avrei esultato, a ripetere i gesti davanti allo specchio finché non mi sembravano perfetti». 

Se un giorno vorrà davvero vincere il Tour de France, Tom sa benissimo che dovrà rinunciare alle altre discipline. Non subito però. Da qui ai Giochi di Parigi non se ne parla. «Almeno fino alla prossima Olimpiade mescolerò ancora tutte le discipline. Poi, certo, quando vorrò concentrarmi completamente su un grande Giro, per quell’anno mi dedicherò soltanto alla strada. Ma potrò sempre tornare al fango e al singletrack». 

Nato per la mountain bike, come si definisce lui, Pidcock vede nelle ruote grasse la disciplina più completa e sfidante di tutto il ciclismo. «I biker sono i più completi, perché hanno delle abilità di guida speciali e anche delle capacità fisiche che potrebbero facilmente trasferire alle altre discipline, mentre i corridori su strada non devono essere necessariamente così abili. Invece chi fa BMX è abile ed esplosivo, ma non deve allenare la resistenza». 

Avvertenza: a Tigger piace giocare. Si diverte a Fortnite (anche contro Mathieu van der Poel), preferisce Xbox alla PlayStation, e durante il primo lockdown rimase da solo per mesi nella casa di Andorra a guardarsi tutte le stagioni della serie spagnola La casa di carta (Beth, la sua girlfriend, era ancora in Inghilterra). La pandemia gli ha insegnato a stare più rilassato, «se non c’è niente che puoi fare, è inutile che ti preoccupi». Se avesse una macchina del tempo non andrebbe nel passato («quello lo conosciamo già, ce l’hanno spiegato a scuola») ma nel futuro, «andrei avanti cinquant’anni per vedere che cosa succederà con il cambiamento climatico. Sapendolo in anticipo, magari potrei aiutare il mondo». Come Superman, ancora.

Gli piace giocare ma quando va in bici vuole soprattutto vincere. «A me delle corse è sempre piaciuta soprattutto la parte in cui arrivavo al traguardo davanti a tutti». Ci ha messo un po’ di tempo a capire che non si può vincere sempre, «da ragazzo, quando mi accorgevo che non avrei vinto preferivo mollare, arrivare secondo o ultimo per me era uguale». 

In principio gli inglesi lo chiamavano the next big thing, la prossima cosa grande. La prossima riferita a una generazione che ha stravolto regole e tradizioni del ciclismo. Oggi Pidcock ha ventiquattro anni e ha già vinto moltissimo – su strada, nel cross e in mtb – nonostante faccia parte dell’era dei Vingegaard e dei Pogacar, dei Van Aert e dei van der Poel, per non parlare di Remco Evenepoel, che ha appena sei mesi meno di lui. L’oro olimpico è la sua differenza. Quando mancavano meno di due mesi ai Giochi di Tokyo, Tigger si è rotto una clavicola. Si stava allenando sui Pirenei, in discesa, quando un’auto che arrivava dalla parte opposta lo ha preso in pieno facendolo volare e spezzando in due la sua Pinarello. C’è voluto un intervento chirurgico, ma dopo sei giorni lui era un’altra volta in bici. Se tua nonna ti chiama Tigger, tigrotto, e tu sei convinto di essere Superman, un motivo ci sarà.

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