MTB PLAYERS #3 / Gonzi: «Urlo, amo, gioco. E voglio il terzo mondiale con Paez»

Tempo di lettura: 4 minuti

Essendo Stefano Gonzi una vecchia volpe della mtb, è impossibile tirargli fuori nomi e cognomi. «Al team mancano due giovani. Ma non ve li dico». Per avere il quadro completo della Soudal-Lee Cougan International Team bisognerà aspettare domani, venerdì 25 gennaio, e la settimana che viene. L’importante è che lo si sappia: «Credo di aver fatto un team perfetto. Ci sono giovani, veterani e donne. E tutti di altissimo livello. Sono strafelice della mia campagna acquisti». Da ragazzo la bici non era il suo orizzonte. Oggi Stefano ne ride, ma lo ha sempre saputo: «Mi allenavo tre ore al giorno e mi battevano, cinque e mi battevano, sei e mi battevano. Ero uno da tavolino». Eppure il presidente, manager, di una delle squadre più forti del marathon sa cos’è il sacrificio. «Mio padre faceva il camionista, mamma la casalinga. Arrivo da una famiglia umile e di gran lavoratori. È tutto quello che mi è rimasto. Ho lavorato trentatré anni in una fabbrica di filati. Lavoravo tantissimo, nessuno mi poteva dire nulla. Ma il dieci del mese volevo il dovuto. Lavoro e rispetto, è quello che chiedo sempre».

Anche al suo team?
«Certo. Rispetto e lavoro sono le cose che ho cercato di trasferire anche ai ragazzi. E poi voglio che stiano bene perché dietro quello che fanno c’è tanto sacrificio». 

Che rapporto ha con i suoi atleti?
«Sono un maresciallo: li cazzio, e anche tanto. Però poi me li abbraccio e me li coccolo. Gli voglio bene. Il mio è un arrabbiarsi di un padre con i figli. Mi passano in mente tante immagini. Anni anni fa avevo Paolo Alberati, avemmo un diverbio, non ricordo per cosa. Il giorno dopo abbracciamo, gli chiesi scusa. Condividemmo l’errore. Urlo tanto, sì. Ma mia moglie dice: can che abbaia non morde. Io abbaio parecchio».

Però ha fatto un grande team. Cosa si aspetta?
«Intanto aspettiamo questo calendario dell’UCI, che non si sa che cosa stia facendo. L’anno scorso abbiamo vinto tanto e dissi che ripetersi sarebbe stato molto difficile. Vorremmo puntare a questa coppa del mondo. C’è Paez che punta al terzo mondiale».

È la stella polare?
«Sarebbe la ciliegina sulla torta, sarebbe un premio a lui e per la sua carriera. E anche per me dopo trent’anni che sto qui».

Ci parla mai con Paez?
«Come no. Lui ha la testa lì, un’idea fissa. Ogni tanto gli dico: “Oh, ma ti ricordi che hai 42 anni tra poco?”. Lui non se ne rende conto. Vuole il terzo mondiale e io lavoro per quello. E alla crescita di questi nuovi atleti».

Ecco: Sandra Mairhofer e Adelheid Morath.
«Ho sempre detto che non volevo più rifare un team al femminile. Ma adesso c’è visibilità, sta riprendendo campo. Abbiamo fatto una struttura a parte. Perché se fai un team devi avere un gruppo che le segue. Poi è arrivata Morath. Vieni con noi, le ho detto. “Se mi dai un foglio firmo”. È stata più veloce della luce. Con Sandra siamo amici da una vita. È educata, per bene, non puoi non volerle bene. Mi ero sempre detto: un giorno, quando rifarò la squadra femminile, porto Sandra. È stato più facile del previsto».

Cosa si aspetta da loro?
«Sandra è tenace, può fare tutto. Adelaide è un Paez al femminile. Insieme ne faranno delle belle». 

Cosa è cambiato in questi ventitré anni di gestione del team?
«Era tutto amatoriale, bastava una stretta di mano. Adesso è una ditta, ci vuole il commercialista. Prima i social non fregavano niente a nessuno. Dovevi vincere. Adesso viene prima quello, poi devi anche vincere. La visibilità conta».

Le piace?
«Un po’, perché sei inquadrato bene. Però bisognerebbe che l’UCI credesse un po’ di più nel marathon. Abbiamo l’Olimpiadi di tutto, ma l’Olimpiade del Marathon no. Eppure il marathon è il business della mtb, i soldi arrivano da lì. Però i soldi li investono nell’XCO, ci sono le tv».

Pare sia difficile trasmettere il marathon.
«Una scusa, con le tecnologie di oggi si può fare tutto».

Il capo della Soudal che ne pensa?
«Con Mario Sorini sono molto amico, abita a Prato. Gli ho venduto una bici prima che lui facesse da sponsor. Fu in quella occasione ci parlammo. Nacque tutto lì».

E la bici?
«Gliel’ho fatta anche pagare (ride ndr). Sono stato fortunato. Non c’era il ciclismo nei miei obiettivi, facevo altro. Il ciclismo l’avevo lasciato da ragazzino. Gestivo un team, il Team13. Il proprietario non era sul pezzo. Un giorno uno sponsor mi dice: “Perché non prendi in mano tutto?”. Sì. È capitato, e ho navigato l’onda. Mi sembra bene. Ci sono esperienze e fortuna. Anche se il mio capo della Soudal non vuole che lo dica».

Perché?
«Dice che la fortuna non esiste, che bisogna andarsela a cercare. Ma trovare uno sponsor come Soudal fuori settore, che non c’entra nulla con le bici, è una bella fortuna».

Qual è la parte meno divertente del suo lavoro?
«Tutta la burocrazia, è diventata veramente una cosa ingestibile. Con la nuova riforma dello sport sono fisso dalla commercialista da due mesi. È una cosa molto noiosa, ma il resto è tutta gioia. Ogni volta arriviamo a ottobre e diciamo: “Basta, non ne possiamo più”. Due settimane dopo abbiamo già voglia di ripartire».

Ha mai pensato di mollare tutto?
«Sì, anche prima del covid. Mi era preso un po’ di freno. Le cose andavano bene, ma ero stanco, mi sentivo stanco, in famiglia non c’ero mai. Poi i figli mi hanno detto: “Ma come, molli tutto adesso?”. Mi hanno spronato e adesso si va spediti. Ho sessant’anni, vediamo che succede nei prossimi sessanta».

soudal-leecougan.com