L’incredibile storia di Paez: «Andavo alle gare in bici per risparmiare, nonostante l’età ho ancora voglia di gareggiare»

Leonardo Paez, tra i favoriti per i mondiali Marathon, in azione a Grachen (foto: Michele Mondini)
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«Dovevo andare alle gare in bici per risparmiare», lo dice con una tranquillità assoluta Leonardo Paez, uno dei fuoriclasse del mondo delle marathon, come se fosse una cosa “normale”. Hector Leonardo Paez Leon, il suo nome completo, è una di quelle persone che sa cosa vuol dire la parola “fatica” in ogni sfaccettatura del suo termine. È difficile diventare professionisti nel mondo del ciclismo, figuriamoci come poteva essere più di 20 anni fa in Colombia dove il ciclismo professionistico quasi non esisteva. Ma questo non è mai stato un vero problema per Paez, d’altronde per chi sin da giovanissimo deve andare a scuola la mattina e lavorare il pomeriggio le altre cose possono sembrare una passeggiata. La storia di Leonardo è fantastica, dagli inizi in Colombia alle Olimpiadi, dal passaggio alle marathon ai due titoli mondiali, eccola raccontata da lui:

Come e quando hai iniziato ad andare in mtb?

«All’inizio non avevo una bici, ne ho presa una in affitto per imparare ad andarci in paese. Era una bici da passeggio quindi era difficile andare a scuola con quella. Poi a 16 anni ho preso la mia prima bici e la usavo sia per andare a scuola che per andare a lavorare in campagna. Per andare a scuola dovevo fare una salita di 3 km quindi all’andata ci mettevo molto, poi al ritorno però era tutta discesa. Inoltre avevo un cugino che aveva corso alcune gare in Colombia, anche la Vuelta a Colombia, andava forte ma si allenava troppo. È stato lui a coinvolgermi in qualche gara, così ne ho fatta qualcuna, ad esempio quella della festa del paese in mtb e l’ho vinta».

Perché la mtb e non un altro sport?

«Perché la mtb era meno costosa, anche se la bici era pesante almeno non costava troppo. Poi era difficile trovare gli sponsor per fare le gare su strada, ora è cambiato tutto».

Come mai sei venuto in Italia?

«Quando ho iniziato ad andare forte mi hanno preso in un progetto che aiutava gli atleti a sorgere. Mi sono dovuto trasferire dalla mia città alla regione di Bogotà, lì un allenatore italiano, Andrea Bianco, ha iniziato ad allenarmi ed ha visto il mio potenziale. Così ha chiesto di fare un viaggio in Europa per vedere il mio vero livello, in Colombia non vincevo tutto ma ero il più forte. Così sono partito per l’Italia per fare qualche gara nel 2004, poi nel 2005 ho trovato una squadra: L’Arcobaleno – Carraro».

Com’era la situazione ciclistica in Colombia all’epoca?

«A quei tempi in Colombia c’era il ciclismo ma non eravamo conosciuti a livello internazionale. Pochi atleti viaggiavano e c’erano pochi sponsor. La mtb costava meno quindi riuscivo a cavarmela, per andare a fare le gare mi spostavo in bici così risparmiavo. C’erano anche della gare su strada all’epoca ed il livello era buono, c’era anche Mauricio Soler (ciclista professionista che ha vinto nel 2007 la classifica scalatori al Tour de France ndr) che andava forte con una squadra colombiana. Poi sono venuto in Italia a correre in mtb e piano piano sono venuti anche altri, sia per la mtb che per la strada come Mauricio».

Ed oggi invece cosa e quanto è cambiato?

«Un po’ la situazione è cambiata, hanno investito nello sport e ci sono atleti forti che riescono a venire in Italia. C’è maggior supporto rispetto a prima ma la situazione non è ancora molto buona, anche se è migliorata tantissimo».

Vivi in Italia giusto? Dove ti alleni?

«Vivo a Cerveteri, vicino Roma, e mi alleno lì da quelle parti. Non ci sono montagne importanti dove allenarmi ma c’è tutto quello che serve in zone come la Tolfa».

In futuro, una volta finita la carriera da ciclista, cosa ti piacerebbe fare? E dove ti piacerebbe vivere?

«Oramai ho costruito una famiglia qui in Europa, mi piace vivere sia qua che in Colombia… vedremo strada facendo. Per adesso mi godo la vita al massimo stando con le persone che amo. Per ora per lavoro sono di più in Italia. Come lavoro invece mi piacerebbe fare qualcosa che riguarda la bici, magari sfruttando il personaggio che sono portando avanti qualche progetto, facendo lo sviluppatore di qualche marca… vedremo, ci stiamo lavorando».

Agonisticamente parlando, quali sono stati i momenti salienti della tua carriera?

«È stata una carriera bella, anche lunga. Mi ricorderò per sempre il primo mondiale vinto, per tanti anni ho provato a vincerlo ed esaudire questo sogno è stato magico. Poi vincerlo di nuovo è stato anche meglio».

Quest’anno come sta andando?

«Fino ad adesso è stato un anno molto bello, sono fortunato di avere ancora voglia di correre. Inoltre ho la gente giusta che mi supporta. Belle vittorie, belle giornate, sta andando bene… un anno molto positivo».

Che ne pensi del percorso della Marathon di Snowshoe?

«Mi aspettavo più salita, comunque è un percorso duro e tanto tecnico. Ne ho provato un po’ (l’intervista risale a prima della gara ndr) e quella parte è stata molta lenta. C’è un single track dentro il bosco durante il quale non si vede neanche una casa attorno, tanto che mi sembrava di essermi perso».

E com’è l’atmosfera lì?

«C’è tanta gente che gira qua, soprattutto in bici da downhill».

Quali altri obiettivi da qua a fine stagione?

«Ci sono gare in cui vorrei fare bene: questa, poi la Roc d’Azur, la Castro Legend e poi una gara in Messico, dopo stagione finita. Sono soddisfatto di quello che ho fatto quest’anno».

Rimarrai ancora alla Soudal?

«Mi trovo molto bene quindi sì, si va avanti.»

Hai corso anche nell’XCO correndo pure le Olimpiadi, hai dei bei ricordi?

«Sì, per un atleta è bello andare alle Olimpiadi. Io ho avuto la fortuna di andarci due volte anche se, purtroppo, non ho avuto delle belle giornate. Poi negli anni hanno cambiato i percorsi con più rischio di farsi male, col passare degli anni è diventato pericoloso. Ho fatto Beijing e mi sono ammalato il giorno prima della gara, poi a Londra il percorso era molto pericoloso ed artificiale  e non è andata come volevo, dopo ho smesso con l’XC. Però stare nel villaggio Olimpico con tutti gli altri atleti è qualcosa che mi rimane nel cuore».

Qual è stato il momento più difficile della tua carriera?

«Ci sono stati tanti momenti difficili, in particolare nel 2010 quando mi sono rotto il polso. È stata una frattura molto grave e sono stato lontano dalle gare quasi un anno. Ho dovuto fare due interventi a distanza di tre mesi perché non era guarito. È stato una anno davvero duro, è difficile non fare quello che ti piace, il pensiero di non riuscire a tornare poi… ».

E il più bello?

«L’anno del Mondiale è stato bellissimo. Prima ho trovato l’amore della mia vita e poi ho vinto il Mondiale, direi perfetto».

E il più triste?

«Quando ho rotto il manubrio al Mondiale nel 2016, potevo giocarmelo. È bruttissimo non poter andare avanti quando ne avresti, è frustrante».

Nello sport si parla spesso delle rivalità, tipo Bjorg e Mcnroe, Messi e Ronaldo ecc… per te sarebbe Paez e?

«In gara quasi tutti sono avversari, provo a non avere rivalità al di fuori della gara, di stare bene con tutti, ma in gara sono tutti rivali. Molti in tanti anni mi hanno fatto sudare tantissimo, tipo Sauser o anche Seiwald. Ogni anno o ogni mese c’è qualcuno di nuovo, non so chi potrei definire il mio rivale per eccellenza».

La tua gara preferita?

«Mi piacciono tutte, ma una gara in particolare che mi piace è la Hero. Rimarrà nei miei pensieri, correrci è bellissimo, anche il posto è mozzafiato».

Una persona a cui ti sei ispirato?

«Una persona che mi ispira tantissimo è Nino Schurter, va sempre forte».

Cosa faresti per aumentare la popolarità del mondo marathon?

«Questo è un grande problema, io cerco di fare pubblicità al massimo sulle mie reti social per farla conoscere di più, ma purtroppo non è facile. Servirebbero sponsor più grandi, è uno sport bello con tante partecipazioni, non ci danno lo spazio che meritiamo».

E cosa faresti per migliorare la situazione?

«La farei vedere in diretta ma devono trovare gli sponsor per farlo. Servirebbe fare come al Tour o al Giro con tipo un elicottero, comunque costa ed è difficile».

Che ne pensi della Coppa del Mondo come format?

«È molto bello che ci abbiano inserito in questa CDM, quest’anno solo alla prima prova c’è stata qualche ripresa, poi niente. Quest’anno ci sono state 4 trasferte impegnative ma siamo fortunati che ci abbiano inserito in questo format.  Magari col passare degli anni sarà ancora meglio, quelli che stanno iniziando adesso magari troveranno uno sport miglior in futuro».

Una tappa in America ha senso? Oppure rischia di pesare tanto sulle casse dei team minori?

«Essendo la Coppa del Mondo è importante provare a farla in tutto il mondo, ha un costo per i team ma ci sta. È una trasferta all’anno e si prova  a farla, anche se magari non  tutti hanno la possibilità».

C’è qualcosa che diresti al piccolo Hector dopo tutti questi anni?

«Gli direi “bravo”, penso che sia il premio alla disciplina e all’amore per questo sport. Non è facile alla mia età avere ancora la voglia e la passione di correre».

A chi diresti grazie per tutti questi anni?

«Direi grazie a tutte le persone che ho trovato per la mia strada, anche quella persona che mi ha aiutato poco ha contribuito. Ringrazierei anche la prima squadra in Italia, le altre e quella attuale che ancora crede in me.»

Cosa ci dici del Gallo Power?

«Abbiamo trovato un bel feeling, io sono un po’ il tester della situazione. Il center power è tanta roba, ci abbiamo lavorato molto. In mtb si fa fatica, ma se uno cura i piccoli dettagli diventa tutto meno faticoso, anche un piccolo 0,5% di aiuto è tanto. Ogni anno il livello sia alza e queste cose ti aiutano un po’».