MTB PLAYERS #7 / Conte: «Dal garage alla Coppa del Mondo, trent’anni tra i miei campioni»

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Quando era ragazzino facevano la fila. Gli portavano la bici, altri il motorino. «La meccanica mi ha sempre appassionato. Avevo dieci anni, forse meno. Venivano con le biciclette e io la sistemavo nel garage di casa». Anche il destino va costruito, Claudio Conte ha fatto così con il suo. Oggi, 61 anni, continua a essere uno dei meccanici top della mtb. Ha lasciato Santa Cruz dopo quattro stagioni, è andato dai francesi di Rockrider. «Avevo bisogno di nuovi stimoli. Ritrovo tanti amici. Sono sicuro che sarà un bellissimo ambiente». Lo chiamano Papi. Perché l’età è l’età, che ci vuoi fare. Ma anche perché Claudio ha modi dolci e gentili, di uomo amorevole, innamorato del suo lavoro. E gli atleti questo lo sentono. «Ha cominciato Janick Gyger, il meccanico di Schurter, a chiamarmi così. Per fare questo lavoro ci vogliono la curiosità e la passione. E poi la modestia: mettersi in gioco, ascoltare, studiare. La bici è sempre in evoluzione. Ma essere un buon meccanico in Coppa del Mondo è diverso da tutto il resto».

Claudio Conte con Martina Berta

Cosa ci vuole?
«Magari sei un grande meccanico in negozio, ma poi patisci lo stress dei week-end di gara. Soprattutto in quelle di Coppa del mondo. Lì non puoi permetterti errori, i team hanno aspettative, gli atleti pure. Un atleta prima di una gara è sotto stress, c’è tanto nervosismo. E tu devi essere lì, invisibile ma presente. Devi essere pronto a ogni necessità. Non è una cosa da tutti. È una mia caratteristica, sono paziente e tranquillo. Non sclero».

Come ha iniziato?
«Sono nato e cresciuto in Liguria, a Diano Marina. Vivo nella meccanica da sempre, ho anche mollato la scuola per andare a lavorare e comprarmi la prima moto. Ero appassionatissimo di moto da enduro. L’ultimo anno ho fatto di tutto per andare male: assenze, poco studio. Andai da mio padre Luigi, lo convinsi che volevo andare a lavorare. Andò da un suo amico meccanico, lo convinse a prendermi prese in officina. Vendeva moto Swm, un marchio storico. Poi ho fatto due anni in un concessionario di auto, nove anni in un cantiere nautico. Le barche sono case galleggianti, è stata una grande esperienza formativa. Dopo mi sono appassionato alle bici, ho aperto un negozio di nicchia, vendevo solo Cannondale, riparavo e vendevo solo bici di alta gamma. Niente grazielle. Mtb e bici da strada. Da me veniva Felice Gimondi». 

Che ricordo ha di Felice?
«Persona incredibile. Ho tanti aneddoti. Ho anche lavorato un anno in Bianchi. Una volta venne da me. “Mi guardi il cambio? Non funziona più”. Mi cadde l’occhio sul tubo obliquo: era tranciato di netto da un lato. Non sapevo come dirglielo. “Felice, abbiamo un problemino…”. Gli mostrai con calma il telaio. Andò a casa un po’ arrabbiato, diciamo»

Claudio con suo figlio Luca, campione italiano DH Allievi

Dopo il negozio?
«L’avevo ancora quando entrai nel team Argentina Bike. Una squadra di DH nella valle di Arma di Taggia, praticamente l’enduro in Italia è nato lì. Ci sono stato fino al 2018, poi il budget, una cosa e l’altra… Ed è arrivato l’XCO».

La tecnica sta invadendo troppo la mtb?
«Sarebbe stupido dire di sì: senza lo sviluppo e il progresso non si andrebbe avanti. Ci sono cambiamenti importanti con l’elettronica, non so quanto avvantaggino l’atleta e la prestazione, ma comportano studio, impegno e investimenti. Però la bici è fatta di cose semplici: restano il cuore, i pedali e i polmoni. Però, da meccanico, tutto quello che è sviluppo mi esalta».

Cosa di più?
«Il lavoro sulle sospensioni. Con l’avvento dell’elettronica ci sono cose molto affascinanti. L’anno scorso avevamo provato tutto su Martina Berta e Luca Braidot. È stata una grande esperienza, stavamo sviluppando le cose assieme a Sram. Quel tipo di sviluppo ti dà sensazioni pazzesche, starei lì a lavorare ore e ore senza mai fermarmi».

Gli atleti crescono imitando idoli e campioni. E i meccanici?
«Ho avuto grandi maestri della meccanica in generale. Per esempio un capofficina in un concessionario Fiat per cui ho lavorato, veniva da una grande esperienza in Africa, aveva una sua azienda lì, sistemava i mezzi nel deserto, jeep e camion, e mi ha sempre insegnato che qui è più facile: hai i ricambi, i tutorial, tutto quello che ti serve c’è. Invece nel deserto doveva costruirsi le parti, trovare un sistema per far andare le cose. Nella bici, poi, molte cose le ho apprese da autodidatta. Nel tempo ho apprezzato tantissimi colleghi, e da ognuno ho cercato di carpire qualche segreto».

Cosa si porta dietro dall’esperienza con Braidot?
«Ricordo che quando venne cercato da Santa Cruz stavamo facendo il viaggio di ritorno da Nove Mesto. Ne parlammo, per lui era una decisione complicata, doveva lasciare i carabinieri. Voleva essere certo di fare una scelta buona. Lo avevo rassicurato sulle condizioni del team, sulla validità dell’ambiente. Alla fine ha firmato per tre stagioni. Un primo anno complicatissimo, era quello delle Olimpiadi di Tokyo, aveva grande pressione addosso. Quella del 2022 è stata una stagione straordinaria con 2 vittorie e 5 podi. Abbiamo fatto tanto».

Che immagine si porta via?
«La seconda vittoria, quella di Andorra. C’era Dascalu davanti che aveva avuto un problema meccanico. Luca gli era addosso, aveva sfruttato l’attimo, e dal bosco era sbucato davanti a Vlad. Noi dello staff ci fiondammo al traguardo. Un’emozione incredibile. Bellissima».

Come lo vede per Parigi?
«Lui ci crede molto, ci punta, e ha una grande occasione. Può essere che ne faccia un’altra, dopo. Ma a Parigi potrebbe fare un risultato. Nel test event ha bucato a mezzo giro dalla fine, ma ricordiamocelo: era terzo. Il percorso gli piace. Se arriva in condizione può correre per una medaglia». 

Gli attrezzi del mestiere

E Berta invece?
«Martina l’avevo vissuta da junior, quando ha vinto il Mondiale. Stupendo. Avevamo festeggiato in albergo. Ha continuato la sua crescita, a un certo punto si era persa. In Santa Cruz, la prima stagione, era andata così così. Ma nella seconda è partita con il piede giusto. È sicura di sé, tecnicamente guida benissimo, è potente. Per me se la può giocare. Il focus è sulle Olimpiadi».

Oltre a loro due chi vede?
«Ragazzi che ormai non sono più promesse, ma atleti formati: Avondetto, che ha vinto al mondiale Under 23; lui farà bene. Lo stesso penso di Zanotti. Sono tutti e due ragazzi fantastici, molto a modo, concentrati sul loro lavoro. Ragazzi che mi piacciono».

C’è un campione con cui le piacerebbe lavorare?
«Uno che mi piace tanto è Dascalu: Vlad è bravo, umile, tranquillo. Ringrazia, saluta. È un aspetto che mi piace nei campioni. Ti fanno sentire più umano, così si è tutti più vicini. Anche con Litu, il meccanico di Vlad, c’è un grande rapporto. È bello ricordarsi delle persone che hai intorno. Schurter, per esempio, è il fenomeno che è. Ma Nino non smette mai di ringraziare le persone. Sono piccole dimostrazioni, ma ti danno una motivazione grande così».